Nella nostra attività di docenti e formatori facciamo spesso 'storia di'; siamo cioè abituati a pensare a come concetti e idee si siano sviluppate a partire da una origine per poi arrivare a diversi esiti.
Se provassimo a pensare anche al concetto di fragilità in questi termini ci troveremmo però in grande difficoltà perché una storia dell’idea di fragilità è, di per sé, impossibile. Se infatti intendiamo - come intendiamo - per fragilità quella condizione per la quale siamo sottoposti continuamente al rischio della perdita, alla gestione delle mancanze, al ripensare nostalgico del passato e a una proiezione ansiosa verso il futuro, alla mutevolezza della natura, al fraintendimento interpersonale, al dubbio morale, alla perfettibilità conoscitiva; se essere fragili significa tutto questo, tale condizione non ha una storia perché essa è tipicamente umana. Ci descrive, ci individua, ci accompagna in modo ineluttabile e, per questo, la sua storia coincide in toto con la nostra. Sin da quando c’è un essere umano sulla terra e fino a quando ce ne sarà uno, la fragilità è stata e sarà la compagna della nostra storia.
Se dunque si vuole parlare di ‘storia della fragilità’, si potrebbe tutt'al più pensare a una storia delle rappresentazioni della fragilità, cioè dei modi con i quali l’ingegno umano ha tentato di prendere atto di quella fragilità per potersene consolare, per arginarla o denunciarla. Una storia cioè di come gli esseri umani, che condividono con tutto ciò che li circonda un destino di disfacimento e incertezza, abbiano posto questo destino al centro della loro azione. Una semplice riflessione mostra come tale storia sia però anch’essa impossibile. Proprio perché gli esseri umani pongono al centro della costruzione della loro identità la loro condizione di fragilità, non c’è prodotto umano che non parli di essa e che non le sia in qualche modo legato. Le opera d’arte, la letteratura e la filosofia, certo. Perché raccontano passioni, aspirazioni, desideri, brutture o anche dispositivi razionali posti ad argine del fiume di opinioni contrastanti, anch’esse figlie di quella fragilità. Ma sono prodotti derivati da quella condizione anche le nostre case, le auto, i telefoni, i sistemi politici, il nostro vestiario, i linguaggi; sono strumenti che usiamo per andare incontro ai nostri limiti e alle nostre fragilità, per difendere la nostra vita, per evitare la rissa permanente, per superare le difficoltà di comunicazione, etc.
Una storia della fragilità non è dunque possibile né come descrizione di cosa è stato fragile nella storia né di come gli esseri umani l’hanno rappresentata. Dovunque si posi il nostro sguardo, infatti, sia nel presente che nel passato, lì c’è una condizione di debolezza e minorità che ci parla di quella condizione.
Per questo, forse ha più senso non una ‘storia della fragilità’ ma una ‘geneaologia della fragilità’; una raccolta non sistematica di ‘casi’ legati non crono-logicamente ma ermeneuticamente; connessi cioè dal tentativo di individuare in ciascuno di essi gli elementi caratteristici e problematici di quella condizione fragile. Provare dunque a saggiare l’inevitabile e ciclico ritorno di quella condizione, non per individuarne una curva evolutiva ma per raccontarli come scene di una medesima partitura (Foucault 1971, p. 145).
Questa premessa ci libera per certi versi dalla necessità di lavorare 'storicamente', di individuare una origine dell'idea di fragilità e seguirne lo sviluppo, e ci permette di procedere per immagini, individuando, nella storia dell'arte, nella letteratura, nella musica, nella filosofia ma anche nelle discipline non umanistiche, esempi, rappresentazioni, modelli con i quali gli esseri umani hanno preso atto della loro fragilità e l'hanno descritta.
Da leggere
Foucault, M., «Nietzsche, la généalogie, l'histoire», Hommage à Jean Hyppolite, Paris, P.U.F., coll. «Épiméthée», 1971, pp. 145-172.